Vatican Chapels, un blog di viaggio
Vatican Chapels
un blog di viaggio
di Piero Santostefano – 04/08/18
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Articolo di approfondimento per la sezione Architettura e Design de
Il Cortile di Francesco 2018 : Differenze – programma generale e biglietti in www.cortiledifrancesco.it
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Biennale Architettura Venezia 2018: Freespace, curatrici Yvonne Farrell e Shelley McNamara
Padiglione Santa Sede: Vatican Chapels
Commissario: Cardinale Gianfranco Ravasi
Curatori: Francesco Dal Co, Micol Forti
Sede: Isola di San Giorgio Maggiore
Espositori: Andrew Berman (USA), Francesco Cellini (Italia) , Javier Corvalan (Paraguay), Eva Prats e Ricardo Flores (Spagna), Norman Foster Regno Unito), Teronobu Fujimori (Giappone), Sean Godsell (Australia), Carla Juacaba (Brasile), Smiljan Radic (Cile), Eduardo Souto de Moura (Portogallo), Francesco Magnani e Traudy Pelzel (MAP Studio – Italia)
Link a sito Biennale – pagina Santa Sede
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A quasi un secolo esatto di distanza dalla costruzione della Cappella nel bosco di Gunnar Asplund nel Cimitero di Stoccolma, il confronto tra Architettura, Natura e Senso del divino torna di attualità anche per un pubblico con interessi culturali di taglio generalista. E ciò sicuramente grazie a Vatican Chapels, percorso espositivo che rappresenta la Santa Sede nel contesto della XVI Biennale Architettura di Venezia in un padiglione in San Giorgio in isola.
Archetipo tra i fondamentali del faticoso scorrere della storia, la sosta all’intero di un luogo artificiale che offre la possibilità di contemplare nel medesimo istante il Creato e il Creatore, ritorna oggi a San Giorgio in isola.
Infiniti i granelli della sabbia del litorale marino (Gen 13,16), oppure il numero di quello dello stelle nel cielo (Gen 15,5), così infinite sono le possibilità di organizzare un percorso soggettivo di visita tra le dieci cappelle, intese come «luogo di orientamento, incontro, meditazione e saluto». Sollecitazione progettuale che l’ideatore della mostra Francesco Dal Co ha rivolto ai dieci architetti delle Vatican Chaples, e stimolo per chiunque si appresti a soddisfare la personale e spasmodica richiesta di luoghi dedicati all’ascolto, del Sé, dell’Altro o dell’Assoluto in un ordine comunque privo di gerarchie.
E se le dieci forse effimere costruzioni sono una metafora della condizione dell’uomo, è difficile esperire la loro coinvolgente potenza nel far inciampare nel bosco di San Giorgio anche il visitatore più distratto sulle prospettive del proprio tempo e del Tempo. Sarà meglio seguirle nel loro radicamento finale, se mai le Vatican Chapels avranno una disseminazione fisica al di fuori di Venezia, piuttosto che cercare, qui ed ora, spunti di riflessione in un allestimento che, proprio perché tale, rinvia a fruizioni finali al momento senza geolocalizzazioni.
L’incontro con le diverse prospettive che, comunque, in maniera efficace, poetica e altamente professionale, gli architetti ci sfidano a mappare è pervaso, dal frinire di migliaia di cicale ben a loro agio sugli alberi del boschetto di San Giorgio. Sottofondo talmente rumoroso che per qualcuno può perfino configurarsi come un invasivo fastidio. E la cicala, l’insetto simbolo dello scialo e del carpe diem, è l’unico elemento naturale in una piccola selva creata su una porzione dell’isola spuntata dalle acque mediante bonifica in seguito alla cessione dell’isola stessa dal Demanio alla Fondazione Cini nel 1951. Ma tant’è, Venezia è la città della finzione e della maschera per eccellenza, e anche quando si cerca di sfuggire a questa finzione il rimescolamento delle variabili può ricondurre al punto di partenza.
Se dunque il bosco di San Giorgio è artificiale, vengono meno i presupposti della riflessione sul Creato/Creatore. E per di più da boschi e foreste a ogni latitudine tutti gli abitanti del panteon paganeggiante sono state espunti e ridicolizzati a colpi di Tweet e di immagini su Instagram. Cosa potrebbe spingerci allora ad accettare il gioco / la sfida del confronto? Le Vatican Chaples hanno di per sé una forza attrattiva così potente e imprevista che costringono, nonostante tutto, a riflettere chi varca la soglia del Finito/Infinito?
Per rispondere a quest’ultimo quesito inviterei a soffermarsi su un unico particolare, tra i molti che si offrono al visitatore, e che si possono scegliere tra il pantone degli elementi compositivi, l’abaco delle geometrie, il database dei materiali e delle loro textures. Questo elemento è la porta. Per eccellenza elemento di separazione/unione, dentro/fuori anche tra chi si difende e chi offende, per corrispondere alla propria funzione ha però bisogno, tranne le versione hi tech, di cardini o cerniere. Cardine e cerniera: sottraendo queste due parole dal lessico strettamente edilizio ci si ritrova con due spunti non da poco: in ampia accezione sinonimo di cardine è sostegno e di cerniera è snodo. A questo punto la porta diventa essa stessa sostegno di un significato e snodo di itinerari di vita.
E ancora la porta è elemento fondamentale che accompagna tutto l’immaginario ebraico-cristiano, dalle porte del Tempio di Gerusalemme, alle porte dell’Inferno/del Paradiso. Né si può fare a meno di ricordare – per le ripercussioni sulle vite di innumerevoli fedeli – la Porta Santa nella basilica di San Pietro a Roma, né la suggestiva immagine di Lutero che affigge sulla porta della chiesa del castello di Wittenberg la Discussione sulla dichiarazione del potere delle indulgenze, prologo emblematico di come oggi si postano su Facebook anche riflessioni importanti che muovono visioni del mondo o emozioni personali.
L’itinerario di riflessione, con queste premesse, ha un punto di partenza obbligatorio ed è la cappella di T. Fujmori, con le quattro colonne sghembe di legno sulla facciata principale che accennano al tradizionale protiro. La porta “stretta” che sotto si apre – riferimento a Mt 7, 13 “Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono coloro che entrano per essa” – è forse più da intendersi come un artificio per richiamare l’attenzione sul fondo dell’edificio. Lì si staglia la croce ricoperta di lamine dorate solo in corrispondenza del legno dove era crocifisso il Salvatore del mondo. Piccolo Calvario ridotto all’essenziale – il piede della croce trafigge il suolo su un rigonfiamento del terreno – il metallo dei tre chiodi conficcati nel patibolo rinvia al metallo dei chiavistelli che dovrebbero aprire e chiudere le due porte della cappella. Dovrebbero, perché in realtà rivestono una funzione decorativa e non funzionale, sono dunque porte inutili, e la seconda apertura, che si apre a destra della croce e permette di riprendere il percorso di visita è di gran lunga più grande di quella sotto il protiro. Se il tempo trascorso inginocchiati davanti alla croce trasforma il viandante, l’uscita non può che essere portatrice di novità, perché come in Gv 14, 6: «Io sono la via, la verità e la vita».
Anche nella proposta di S. Radic la porta ha un impatto visivo non trascurabile, anzi è il primo elemento che scardina la circolarità dell’invaso spaziale nella quale è immersa una croce. Lo scardina doppiamente perché anch’essa “porta inutile” che non potrà mai essere chiusa (riferimento forse a Lc 17,10) perché l’elemento costruttivo ha già svolto il suo compito, richiamare la nostra attenzione e sollecitarci ad entrare. Le linee rette dei listoni in legno e la diagonale del rinforzo sono altro rispetto alla circolarità del volume principale che risucchia il visitatore. Il montante sghembo della croce lignea non appoggia a terra, ma si innerva in una base in calcestruzzo scheggiandone una parte, mentre la traversa sostiene la copertura, trasparente e quadrata. Ma non solo la traversa sorregge il tetto/cielo, il “coperchio” circolare che il pellegrino attraversa con lo sguardo è distanziato dalla struttura troncoconica da piedini metallici che sembrano un proliferare senza controllo di chiodi patibolari. Il cielo si raggiunge solo attraverso la Croce.
Nella vatican chapel di S. Godsell le porte sono ben quattro, e si sollevano dalla base di ciascuna delle quattro pareti che costituiscono le facce laterali di un parallelepipedo completamente vuoto all’interno. Spazio senza un vero orientamento visivo a livello di quota terra – la mensa in metallo rinchiusa nell’involucro spaziale e le panche all’esterno possono essere riallineate secondo le esigenze contingenti – i quattro battenti controllati da pistoncini sottoposti al ciclo di apertura/chiusura sono invito ineludibile per addentrarsi nella struttura. Lì si può solo guardare verso l’alto dove l’intensità del colore del cielo prova a rivaleggiare, soccombendo, con la maestà della tinta oro che avvolge all’interno il prisma retto.
Due gli ingressi proposti da A. Berman per accedere al suo spazio di riflessione, minimalista basato su tagli di luce in ambiente in penombra con scarni elementi di arredo anch’essi frutto di scelte compositive dove oggetti geometrici sono tagliati da piani che generano una configurazione spaziale di secondo livello. I due ingressi incorniciano lateralmente la facciata principale che per tutta la sua lunghezza a pochi decimetri da terra reca a sbalzo una spessa tavola. Piano per seduta che offre ristoro a chi si trova a passare di lì, ora come nei secoli precedenti dove gli edifici sacri quanto più in posti fuori dai borghi tanto più scandivano soste e offrivano punti di riferimento per chi si muoveva per questioni di lavoro, di affetti o di sopravvivenza. La seduta è elemento cardine, ma non sapremo mai se chi vi sosta lo fa per prepararsi ad entrate o si siede, rincuorato o frastornato, all’uscita, prima di riprendere il cammino.
R. Flores – E. Prats inseriscono una porta nel loro luogo di meditazione, ma è porta passante, che attraversa il corpo di fabbrica lontano dal nucleo principale del progetto, una piccola cappella laterale a cui manca la chiesa di appartenenza. Parete di fondo della cappella e volta a botte che la chiude recano però due occhi che forano l’involucro permettendo giochi di luce dove il tragitto del sole modifica in continuazione le forme lenticolari che i due occhi proiettano sulle pareti. È una luce che rimanda, tuttavia, a Venezia, a uno dei più noti padiglioni dell’Ospedale Civile dove il contemporaneo ha recuperato tratti compositivi della facciata tardo quattrocentesca del nosocomio.
Ancora di Venezia sembrerebbe parlare il luogo concepito da E. Souto de Moura, con un recupero di allusioni a Carlo Scarpa nei gradini/inginocchiatoio che formano un prologo separato dal manufatto principale, o nell’aggregare le lastre parietali dell’involucro o, ancora, nella forma del doccione per eliminare l’acqua piovana dalla copertura. Copertura che riguarda solo la porzione terminale di una costruzione lunga e stretta con accesso laterale rispetto al corpo principale delimitato da due parete convergenti. Moderno dolmen, nel punto più lontano non esibisce una tomba megalitica, ma una mensa dove si rinnova il miracolo della sconfitta della morte. Da questa mensa un’unghiata sovrumana ha asportato un frammento, a fare da pedana al sacerdote che si accosta alla mensa per celebrare l’Eucarestia. Ma il volume della pedana non corrisponde con il vuoto lasciato nella mensa, umano e divino non sono in nessun modo interscambiabili.
Poteva mancare un riferimento al mare e all’acqua in questa Venezia? Forse ci ha pensato N. Foster con una cappella, tutta reticolo strutturale avvinghiato al suolo da arbusti, che non si serve di porte per marcare il dentro/fuori, ma che, una volta entrati, non ci permette di vedere la parete di fondo perché la pianta è una V asimmetrica molto aperta. Sullo snodo tra i due segmenti di base una panca in legno curvilinea ci invita a fermarci, zattera su cui salire dandoci le spalle e serrando i ranghi per affrontare i marosi? Se il nostro incedere va oltre lo snodo angolare della navatella sarà allora possibile vedere la croce, e dietro una mensa di notevoli dimensioni. A ben guardare non è una mensa ma la prora, rivolta all’interno della cappella, di un’imbarcazione spiaggiata priva di grandi navigatori che assegnano nomi di santi alle isole, o orfana di santi che fondano chiese e monasteri. Rifiutare il mare, rifiutare Venezia e i suoi travestimenti, contemplare la croce e col-legarsi sembra l’unica condizione perché la scialuppa/zattera/gommone non affondi e i marinai/migranti non periscano.
Chiudiamo, con poche parole, con tre progetti che hanno scelto di far esplodere il concetto di cappella, di spazio raccolto e ben delineato per trasformarsi in luoghi senza separazione tra il dentro e il fuori.
Per F. Cellini alcuni piani che si intersecano a 180 gradi generano in-croci, ma la focalizzazione principale è su un leggio, pronto per accogliere un testo, forse sacro o forse profano non è dato sapere.
Nel concept di C. Jaunçaba non sono piani bensì linee a generare rimandi a spazi di riflessioni dove una croce collega simbolicamente il cielo e la terra. Opera che si coglie nella sua pienezza con qualche difficoltà da un punto di vista di un normale fruitore, e che acquista maggior ricchezza semantica se osservato da quote superiori, come ben suggerito nei disegni di progetto. Osservazione, questa, che ci permette di segnalare che il primo accostarsi a oggetti di architettura dovrebbe trovare immediatamente riscontro con qualche fase dell’iter progettuale. Una stringata selezione dei disegni di architettura faciliterebbe la comprensione delle dichiarazioni d’intenti, senza dover ricorrere sistematicamente alla consultazione del catalogo cartaceo.
A conclusione la cappella, o meglio il cenotafio ideato da J. Corvalan. I due cilindri concentrici – aggregato volumetrico che rinvia a stazioni spaziali dove HAL ha terminato con successo il proprio programma – schiacciati da una croce disalberata e ricondotta a un allineamento orizzontale non si sono ancora schiantati a terra. La croce “orizzontale” non è in grado di trattenere il corpo del Crocifisso. Trafugato di nascosto secondo la versione dei sacerdoti di Gerusalemme (Mt 28,13), o risorto con l’immane potenza che Piero della Francesca infuse nell’affresco ora al Museo civico di San Sepolcro, il corpo del Cristo è altrove. Da sepolcro a cenotafio, dal luogo di incontro e saluto al saluto, cioè al commiato, dal Sacro. Dall’architettura della religione alla religione dell’architettura