L’amnesia del passato recente, di Paolo Belardi
Paolo Belardi
L’amnesia del passato recente
tratto da NAU, Novecento Architettura Umbria (premessa)
a cura di Paolo Belardi, il Formichiere, 2014
Seppure molto diversi dal punto di vista figurativo, gli edifici costruiti in Italia negli ultimi cento anni sono accomunati da un codice genetico che è sempre e comunque profondamente moderno. Non a caso i libri di storia dell’architettura del Novecento sono infarciti di aggettivazioni derivate quali premoderno, tardomoderno e postmoderno.
Ma, a ben guardare, gli edifici costruiti in Italia negli ultimi cento anni sono accomunati anche da una precarietà costruttiva che contribuisce in misura decisiva al disfacimento di un paesaggio inquinato non solo da volumetrie arroganti, ma anche da intonaci civili scrostati, scossaline metalliche arrugginite e cortine laterizie ammuffite.
Il che chiama nuovamente in causa il codice genetico di un movimento ideologico, quale il moderno, che non ha mai fatto mistero né del proprio antagonismo verso la città (tanto da disseminare a ogni latitudine edifici del tutto indifferenti rispetto al contesto) né della propria predilezione per le forme stereometriche (tanto da bandire dal proprio repertorio stilistico qualsiasi forma di gronda e di gocciolatoio) e per le performance estemporanee (tanto da annullare ogni margine tra arte e architettura). D’altronde, a dispetto delle ripetute professioni di fede nel progresso tecnologico, l’interesse dei pionieri della modernità per gli aspetti teorici ha sempre teso a prevaricare quello per gli aspetti pratici, lasciandoci in eredità edifici non solo dissonanti, perché concepiti in contrapposizione alla città, ma anche malcostruiti, perché concepiti come manifesti concettuali prima che come beni immobiliari. Che richiederanno con sempre maggiore frequenza interventi di manutenzione che, a loro volta, solleveranno con altrettanta frequenza istanze di demolizione. Mentre è evidente che essi, anche se non hanno ancora compiuto i
fatidici settant’anni di vita (soglia temporale che garantisce un minimo di tutela vincolistica da parte delle soprintendenze), meriterebbero maggiore attenzione da parte della pianificazione urbanistica locale: perché è proprio la fragilità costruttiva a certificarne l’identità culturale.
Non è infatti irragionevole sostenere che, in Italia, le architetture più rappresentative del Novecento sono state proprio quelle effimere ovvero quelle svincolate dalla rispondenza funzionale evocate alla veicolazione ideologica. Soprattutto negli ultimi cinquanta anni.
È il caso del Teatrino Scientifico di Franco Purini, del Teatro del Mondo di Aldo Rossi e della Via Novissima allestita in occasione della Biennale di Venezia del 1980. Così come è il caso, venendo in Umbria, del padiglione espositivo della Fiera dell’Antiquariato di Todi (il criticatissimo “Pallone” firmato da Carlo Aymonino e da Paolo Portoghesi all’indomani del tragico rogo del 1982 a palazzo del Vignola) e dell’ex casa famiglia di Bastia Umbra (il famigerato “Cubo” firmato da Renzo Piano e da Peter Rice
all’indomani dell’entrata in vigore della legge Basaglia): due opere che vantano paternità eccellenti, eppure a rischio demolizione (l’ex casa famiglia bastiola) o in condizioni di grave e irrecuperabile abbandono (i resti del padiglione espositivo tuderte). Quando invece, sulla scia della candidatura di Perugia a Capitale Europea della Cultura 2019, varrebbe la pena censirle, tutelarle, recuperarle e reintegrarle a pieno titolo in un patrimonio storico-artistico altrimenti limitato ai beni da sempre riconosciuti come maggiori. Perché è chiaro che un bene non è minore in senso assoluto, ma lo è in senso relativo, visto che è classificato come tale dall’epoca o dalle epoche che lo giudicano. Tuttavia il vero limite di noi umbri (costantemente ancorati al passato remoto e solo episodicamente protesi verso il futuro) è l’amnesia del passato recente, con la conseguente incapacità di accrescere il nostro patrimonio storico-artistico con nuove acquisizioni ovvero con beni promossi da minori a maggiori. Ed è proprio per coltivare l’interesse per il passato recente che questo libro raccoglie, ordinandoli tematicamente, 79 articoli, dedicati all’architettura umbra del Novecento e redatti da 23 studiosi che, negli ultimi anni, hanno collaborato a vario titolo (e più o meno occasionalmente) con la mia équipe scientifica nell’ambito dell’attività di ricerca del Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale dell’Università degli Studi di Perugia. In tal senso la mia gratitudine, oltre che agli autori dei diversi scritti monografici (per lo più architetti e ingegneri), che sono stati costretti a lunghe frequentazioni archivistiche, va anche ai responsabili delle diverse testate giornalistiche (per lo più quotidiani e periodici), che hanno sostenuto un progetto a dir poco insolito, se non addirittura controcorrente, per una regione annebbiata dal retaggio nostalgico dei presepi viventi e dei cortei storici, garantendomi sempre e comunque la loro fiducia.
Anche quando si è trattato di lumeggiare opere discusse e figure semisconosciute. Ringrazio quindi Giuseppe Castellini (“Il Giornale dell’Umbria”), Nathalie Dodd (“Wall Street International”), Matteo Grandi (“Piacere Magazine”), Anna Mossuto (“Il Corriere dell’Umbria”), Eugenio Pierucci (“Umbrialeft”) e soprattutto Luigi Piccolo (“Umbriasettegiorni”/“QuotidianodellUmbria.it”), che è stato il primo a dare spazio e risalto alle mie proposte editoriali. Proposte che peraltro, pur susseguendosi con un ritmo talora frenetico, hanno lasciato comunque delle lacune: alcune oggettive altre soggettive. Tra le lacune oggettive (posta la limitazione del regesto alle opere con la conseguente esclusione dei progetti irrealizzati), riconosco l’omissione di scritti sui palazzi pubblici di Cesare Bazzani, sugli edifici militari di Pierluigi Nervi,
sui piani regolatori di Giovanni Astengo e sulle ville private di Michele Busiri Vici. Mentre, tra le lacune soggettive, confesso che mi sarebbe piaciuto includere alcuni restauri esemplari (dal ripristino della chiesa di Sant’Andrea a Orvieto di Gustavo Giovannoni alla sistemazione della piazza inferiore della basilica di San Francesco ad Assisi di Paolo Leonelli e Mario Struzzi) e alcune opere d’autore che non sono neppure citate: la caserma Avieri di Roberto Marino a Orvieto, l’albergo dei Cappuccini di Amedeo Monaco e Vincenzo Luccichenti a Gubbio, il centro IRI di Enrico Del Debbio a Terni, lo stabilimento Gavina di Achille e Pier Giacomo Castiglioni a Foligno, la chiesa di Sant’Antonio da Padova di Carlo Bevilacqua a Perugia, il circolo canottaggio di Francesco Cellini a Baschi, l’edificio scolastico di Massimo Carmassi a Trevi. Così come, esclusi programmaticamente gli ultimi grandi architetti dell’Ottocento e gli studi professionali contemporanei, avrei voluto celebrare con il dovuto riguardo figure di primo piano come Alfio Susini, Enrico Lattes e Wolfgang Frankl o, all’inverso, avrei voluto restituire la dovuta considerazione a figure inspiegabilmente sottovalutate, come Angelo Guazzaroni, Felice Sabatini e Vincenzo Tutarini, o a opere ingiustamente vituperate, come la scala elicoidale piantata da Franco Minissi nel cortile del palazzo Della Penna a Perugia o la biblioteca civica frapposta da Arrigo Rudi tra palazzo Deli e palazzo Trinci a Foligno. Ma il fine di una ricerca non è mai la definitività, casomai è l’originalità: peraltro non nell’accezione ordinaria stigmatizzata dai dizionari, che tendono a ridurla a “bizzarria”, ma nell’accezione straordinaria tratteggiata da Guy de Maupassant, per il quale “è un modo speciale di pensare, di vedere, di comprendere e di giudicare”. Il che riassume il senso più profondo di questa raccolta, volta a rendere visibile ciò che altrimenti rischia di rimanere invisibile.
Nonostante internet. I motori di ricerca, oggi, hanno reso accessibile qualsiasi informazione, frapponendo un tempo brevissimo tra l’insorgere del bisogno conoscitivo e il suo soddisfacimento. Eppure quanti perugini conoscono le scuole elementari di Giuseppe Grossi? quanti ternani conoscono i circoli aziendali di Giuseppe Preziosi? quanti folignati conoscono gli edifici chiesastici di Franco Antonelli?
Probabilmente pochissimi, perché si tratta di opere che sono relegate al rango di beni minori e quindi non sono ancora riportate nelle guide turistiche. Ma è un vero peccato, perché l’Umbria del ventesimo secolo ci ha lasciato in eredità luoghi di grande qualità, che spesso non hanno niente da invidiare a quelli, per lo più medievali o al più rinascimentali, che sono effigiati nelle brochure istituzionali.
Come non pensare al villaggio operaio di Nera Montoro, concepito come borgo rurale per consentire ai dipendenti dello stabilimento elettrochimico d’integrare il salario con i prodotti della terra, o come non
pensare a Buzzinda, l’intrigante acropoli costruita con le proprie mani da Tomaso Buzzi alle spalle del convento francescano della Scarzuola? E come non pensare al viale Giontella di Bastia Umbra, punteggiato com’è da opere che ripercorrono idealmente tutte le tappe salienti della storia dell’architettura italiana del Novecento? Partendo dal polo voluto da Francesco Giontella (ex villa, ex tabacchificio ed ex ospizio), laddove Pietro Frenguelli, oscillando tra neoliberty e razionalismo, si avvale della consulenza di un grande designer come Walter Steffenino, passando dal palazzetto dello sport, dove Gian Carlo Leoncilli Massi prefigura una variante postmoderna del filone high-tech, e arrivando alla piscina della discoteca Country, su cui aleggiano gli splendidi disegni eseguiti da Pietro Porcinai per sostenere le qualità paesaggistiche di un circolo sportivo immerso nella natura. Nell’epoca del marketing urbano, la morale è a dir poco scontata e chiama in causa la necessità, per l’Umbria, di voltare pagina e rinnovare senza rimpianti la propria identità.
A cominciare proprio da Bastia Umbra, che non ha un centro storico in grado di competere con quelli ben più attrattivi di Assisi e di Spello, ma che ha molte architetture novecentesche di grande interesse, firmate da architetti del calibro di Antonino Bindelli e Dino Lilli. E che, per l’appunto, potrebbe prendere seriamente in considerazione l’ipotesi di eleggere il polo di viale Giontella a landmark urbano, dimostrando una volta per tutte che l’Umbria non è solo Medioevo, ma è molto di più. Anche e soprattutto in architettura